Le prospettive pensionistiche per chi è nato tra il 1980 e il 1999 — oggi tra i 33 e i 43 anni — appaiono sempre più incerte. Con l’attuale normativa, l’età per accedere alla pensione potrebbe superare i 70 anni, salvo interventi strutturali sul sistema previdenziale.
Secondo l’OCSE, l’Italia è tra i Paesi europei con la più alta età di uscita dal mondo del lavoro: si parla di un pensionamento attorno ai 71 anni, superata solo dalla Danimarca. L’INPS aveva già lanciato un allarme anni fa, indicando che i nati negli anni ’80 rischiano di lavorare fino ai 75 anni e di ricevere assegni significativamente più bassi rispetto alle generazioni precedenti. Uno studio commissionato dall’Istituto ha stimato che i lavoratori nati dopo il 1980 potrebbero percepire una pensione inferiore del 25% rispetto a chi è nato nel 1945.
Le radici del problema: riforme e instabilità lavorativa
La situazione attuale deriva dalle riforme pensionistiche introdotte tra il 1996 e il 2011, in particolare le riforme Dini e Fornero, che hanno trasformato il sistema da retributivo a contributivo. Questo significa che l’importo della pensione dipende esclusivamente da quanto si è versato durante l’intera carriera lavorativa.
Un meccanismo che penalizza fortemente chi ha avuto un percorso lavorativo instabile o redditi bassi. Il mercato del lavoro italiano, segnato da precariato, collaborazioni occasionali e partite IVA “obbligate”, non garantisce una contribuzione continua. Molti giovani iniziano a lavorare in modo stabile solo dopo i 27-30 anni, spesso dopo anni di formazione e tirocini non retribuiti.
Secondo l’OCSE, le donne che hanno interruzioni di carriera superiori ai 10 anni potrebbero ricevere pensioni fino al 27% più basse. Inoltre, il reddito netto medio degli under 35 è di circa 1.300 euro al mese, una cifra che limita la possibilità di costruire una pensione adeguata, soprattutto nel Sud Italia.
Uno scenario da ripensare
Le proiezioni dell’INPS parlano chiaro: per i lavoratori che hanno iniziato a contribuire dopo il 1996, il tasso di sostituzione (cioè il rapporto tra l’ultima retribuzione percepita e la prima pensione) potrebbe crollare fino al 50%, a fronte del 70-80% garantito alle generazioni precedenti. E ciò sarà possibile solo con carriere continuative di almeno 40 anni.
Il presidente dell’INPS, Gabriele Fava, ha evidenziato la necessità di riforme strutturali mirate ai giovani. Tuttavia, al momento non sono state presentate proposte concrete in questa direzione.
Le forme di previdenza integrativa restano poco diffuse tra le nuove generazioni, complici la scarsa informazione e l’insufficienza di risorse economiche. È consigliabile utilizzare i simulatori pensionistici dell’INPS e valutare strumenti di previdenza complementare, ma è evidente che serva anche un cambio di paradigma a livello politico.
Senza un’inversione di rotta, il rischio è che ampie fasce della popolazione giungano alla vecchiaia prive di una vera tutela economica. La pensione, un tempo diritto garantito, rischia di diventare un traguardo incerto, raggiungibile solo da pochi privilegiati.
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